OSSERVATORIO
ARTE E PEDAGOGIA
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Con questa conversazione tra Olga Gambari e Pietro Gaglianò dedicata al suo libro LA SINTASSI DELLA LIBERTA' -arte, pedagogia, anarchia (edizioni Gli Ori,2020) si apre una nuova sezione dell’Osservatorio dedicata alla relazione tra arte e pedagogia; la sezione ospiterà una ricognizione delle esperienze tra arte e pedagogia radicale in Italia, attraverso interviste ad artisti, curatori e spazi indipendenti che operano in questo ambito.
OG: Il tuo libro è un viaggio nell’anarchia come pensiero trasversale, come percorso storico, come strumento pedagogico. Soprattutto come relazione e confronto con l’arte, riguardo al valore potenziale di mutamento del mondo incarnato dall’arte e dall’educazione libertaria. Mi piacerebbe parlarne insieme il più concretamente possibile, per evitare che questo tema, questo tuo libro, appaiano elitari e astratti. Invece appartengono alla collettività. Un libro sul comodino dei cittadini come dei governanti. Partirei prima dal falso mito che avvolge e stravolge il significato dell’anarchia. Anarchia non equivale a caos né a contestazione violenta. Eppure questa distorsione di interpretazione, storicamente così come nel presente, continua a essere perpetrata, spesso intenzionalmente. Tanto da divenire un modo di dire, addirittura usato nella titolatura di alcuni quotidiani nazionali nei giorni recenti.
PG: La distorsione del termine ‘anarchia’ è l’esito di un fraintendimento volontario di lungo corso. Dalla fine dell’Ottocento gli anarchici sono stati i ‘colpevoli ideali’ di ogni atto sedizioso, facendo torto alla gran parte del discorso teorico e politico dell’anarchismo, un pensiero basato sulla solidarietà, sulla responsabilità soggettiva, sull’orrore per l’abuso. Essendo l’unica dottrina politica schierata contro ogni forma di verticismo, ogni potere del vivente sul vivente, ogni dittatura, anche quella del popolo, invocando quindi una revisione radicale dei costrutti sociali, è sempre stata scomoda a chiunque. Dopo le due guerre, con la polarizzazione degli schieramenti ai due lati della cortina di ferro, e con il progressivo declino politico del movimento, l’automatismo del linguaggio ha fatto il resto. La maggior parte di noi, anche i più avveduti, tende a usare le parole attribuendo loro il significato veicolato dai media. Così anarchia diventa sinonimo di disordine, violenza, caos, deformandone anche l’etimologia (la parola greca “archè” si traduce come comando, non come ordine, dunque l’anarchia invoca l’assenza di dominio esercitato dall’esterno, non disordine). Come ricordi tu questi tempi di emergenza hanno prodotto un bel florilegio di ottusità sul tema: ogni volta che si invoca il pugno duro del controllo sulla popolazione la giustificazione più sbrigativa e grossolana è che “altrimenti sarebbe l’anarchia”. La mia risposta spontanea è “magari fosse l’anarchia” perché questo, utopicamente o no, vorrebbe dire che ogni singolo cittadino sarebbe consapevole del proprio dovere, capace di autogovernarsi, di agire correttamente per scelta e non per paura o per obbligo.
OG: L’anarchia può apparire un’etica ideale e non una pratica, mentre invece è quanto mai pragmatica e funzionale al contemporaneo. Si rivela, infatti, il modello individuale e sociale che può costituire l’unica vera soluzione di questo dopo che tutti ci apprestiamo a vivere. Un modello che fonda l’evoluzione sociale sul realizzare la condizione di autodeterminazione, consapevolezza e responsabilità dell’individuo. Un cammino di emancipazione al di là di ideologie e forme politiche, che disinnesca naturalmente il meccanismo ‘del potere’ in tutte le sue forme dominanti visibili e invisibili. Utopico nella misura in cui propone il modello perfetto.
PG: Nessuna società può essere perfetta. Pur in una prospettiva del tutto laica dobbiamo riconoscere che l’umanità agisce inevitabilmente nella sfera del perfettibile. In questo momento della storia planetaria (di cui la crisi sanitaria è un sintomo, un esito del tutto prevedibile) l’area più aggiornata del pensiero e della prassi dell’anarchismo fornisce modelli di grande interesse, alcuni dei quali anche già in opera, praticati, praticabili, e la questione ecologica è più che mai connessa alle questioni sociali. L’utopia (il non luogo, il concetto irrealizzabile) non è convertire l’umanità ad adottare scelte di vita sostenibili, per l’ambiente e per i vari gruppi sociali; la vera utopia, mefitica e irresponsabile, è pensare che il mito della crescita, il consumo forsennato, le strategie del capitalismo possano ancora essere praticate su questo pianeta senza arrivare all’autodistruzione. Il problema, ancora una volta, è la revisione di comportamenti e stili di vista che implicano prima di tutto una rinuncia individuale per un beneficio globale. Ma possiamo davvero aspettarci che questo avvenga per iniziativa dei gruppi di potere, soprattutto in una congiuntura in cui si è persa la salubre separatezza tra gestione politica e interessi finanziari? Mi sembra interessante citare Paul Goodman, un grande pensatore e scrittore statunitense che parla di uno dei più diffusi equivoci sugli anarchici: l’equivoco “è che essi credano alla bontà della natura umana e che perciò ci si possa fidare degli uomini perché si autogovernino. In realtà tendiamo ad adottare la prospettiva pessimistica: non ci si può fidare della gente, perciò bisogna evitare la concentrazione di potere”.
OG: Nel suo percorso l’aspetto fondante, anzi, rifondante, risiede nell’educazione e nella pedagogia anarchica e libertaria, una tradizione spesso negata e travisata. Anche se la conoscenza, quando diventa istruzione -come diceva Proudhon- corre il rischio di convertire il sapere da ricerca aperta a forma chiusa.
PG: Il patrimonio della pedagogia anarchica e libertaria non è stato solo negato è anche stato saccheggiato. Una larghissima parte delle innovazioni e delle sperimentazioni avanzate lungo tutto il secolo scorso negli ambiti progressisti dell’edificio scolastico globale discendono da quella tradizione, a volte in modo letterale, ma senza mai riconoscerlo (un esempio su tutti è il grande pedagogista John Dewey, fondamentale per tutta l’innovazione nell’educazione, che filtra nei propri testi intere tesi espresse da teorici anarchici dalla fine del ‘700 in poi, senza mai darne conto). E in modo inevitabile questa frammentazione e queste ablazioni portano a esiti parziali, deformi, del tutto non soddisfacenti. Mi sembra importante indicare una differenza sostanziale tra i due termini citati sopra: la tradizione pedagogica anarchica è parte del campo della pedagogia libertaria ma non lo esaurisce, così come non tutte le dottrine educative radicali sono libertarie o anarchiche. L’aspetto dirimente di entrambi i rami è il rigetto dell’educazione trasmissiva, quindi dell’autorità del docente, connesso a una prospettiva fallibilista, cioè l’abitudine al dubbio, alla domanda, alla contemplazione del fallimento in luogo dell’esattezza dei paradigmi. Tutto questo rimette al centro l’apprendimento come atto volontario, ribaltando l’idea dell’insegnamento e ponendo docenti e discenti sullo stesso piano, in una condivisione del sapere, in una dimensione aperta della creazione di seno. Ma mentre nelle dottrine strettamente libertarie spesso viene negata anche la posizione etica del docente, nella pedagogia anarchica questa è invece importante come un anticorpo a ogni possibile sopraffazione, fondandosi proprio sulla non presunzione di bontà del genere umano.
OG: L’arte è politica; ogni sua scelta, segno, contenuto, azione lo è. E lo ha dimostrato con la sua presa di coscienza storica e politica, da Courbet, che partecipa alla Comune di Parigi, al rigetto della borghesia e della sua ideologia distruttrice da parte del dadaismo e del surrealismo, all’Internazionale Situazionista, agli artisti del periodo della contestazione fine anni ’60, che scesero in piazza trasformando l’azione in opera, e a quelli dell’impegno politico dei ’70 (compreso il movimento del punk). Fino all’attivismo creativo, all’identificazione nell’ambiente e nel sociale (variamente declinato) del proprio luogo di indagine e azione, oltre che di lotta, cercando le connessioni tra arte e vita, percorso scelto da molti artisti e gruppi appartenenti alla dimensione delle pratiche indipendenti, che condividono alcuni concetti fondamentali con l’anarchismo (l’auto-organizzazione, l’associazione volontaria, l’aiuto reciproco). Il rapporto tra anarchismo e arte è stato lungo e complesso, quanto inevitabile. Un’evoluzione intrecciata. Nel tuo libro ripercorri posizioni opposte, che hanno considerato l’arte come strumento funzionale al disegno rivoluzionario, negando l’autonomia dell’artista (Kropotkin come Proudhon) ma anche come stimolo a uno spirito morale e a un’immaginazione capaci di figurarsi una società nuova. E se Gerald Raunig parla di quell’incompatibilità fatale sul piano politico e anche ontologico tra l’anelito di ogni rivoluzionario e la vocazione di ogni artista (il primo proteso verso un universalismo sociale che il secondo, avvinto all’unicità consustanziale all’opera d’arte, è pronto a sacrificare), Toni Negri, invece, dice che il gesto di ribellione dell’artista costituisce una forma di anticipazione rivoluzionaria.
PG: All’inizio del lavoro su questo libro, in quei mesi in cui cercavo il modo e la forma per accogliere alcune domande che mi premevano, ho provato un certo stupore nel verificare che la condivisione di una stessa area di esplorazione e di principi, tra arte e anarchia, non avesse portato a sodalizi più eclatanti e duraturi. Nei teorici che menzioni, e in generale in quasi tutto l’anarchismo classico, la grande aspirazione di libertà che ispira ogni aspetto della vita associata sembra ridursi solo al cospetto della presenza degli artisti che sono invitati a plasmare il loro lavoro a beneficio della rivoluzione e del mondo nuovo da realizzare. Bisogna ricordare il contesto (una società caratterizzata dall’ascensione della borghesia che aveva asservito l’arte a proprio blasone, sottraendola alla sottomissione storica dei poteri politici e religiosi), e la percezione degli artisti come vettori di pensiero, estetiche, morale, molto più di quanto non sia oggi. Inoltre dovremmo sempre correggere quella sovrapposizione tra il sistema dell’arte e l’esperienza dell’arte. Questo incontro mancato è tanto più stupefacente quanto più si realizza quella centralità dell’esperienza soggettiva – inevitabilmente coniugata alla comprensione del mondo – che è fondativa sia del lavoro dell’artista sia di quello del pensatore anarchico. La Storia, alcune storie che riporto nel libro, parlano di questo incontro mancato arte e anarchia (o in tanti casi misconosciuto – come quello dei futuristi, dei surrealisti) e dell’inconciliabilità ontologica supposta da Raunig tra militanza politica e afflato artistico. Ma su un piano più alto avvertiamo qualcos’altro: l’arte apre fratture spirituali, intellettuali ed estetiche, e nella pienezza della percezione della vita chiarisce la virtù della sua autonomia, in grado di coinvolgere l’interlocutore senza sfruttarne l’emotività ma accendendo la sua immaginazione, sollecitando un’azione creativa e non una reazione. L’esperienza dell’arte è una rivoluzione davvero permanente, proprio come scriveva Bakunin, che riponeva nel moto continuo della consapevolezza rivoluzionaria la fiducia dell’incessante contrasto a ogni struttura di imperialismo e a qualsiasi dottrina, una rigenerazione senza sosta e una garanzia per la libertà.
OG: Anche l’arte, da fine Ottocento, ha espresso una tensione crescente verso un rinnovamento sociale, verso un attivismo in forma creativa che ha preso corpo in maniera sempre più manifesta e declinata. Oggi le pratiche artistiche indipendenti, la loro rete rappresentano il laboratorio d’avanguardia dello spirito anarchico? Una coincidenza che si rivela anche nel fatto che, come dice Paul Goodman, nell’universo globalizzato la cultura anarchica si pone l’obbiettivo di aprire aree di libertà e difenderle. Tu li chiami ‘spazi di immaginazione a comportamenti alternativi a quelli dominanti’, che è proprio ciò che fanno gli spazi indipendenti. Hakim Bay, ancora, ha parlato di TAZ-temporary art zone.
PG: Ogni occasione in cui più persone si radunano per condividere pensieri e pratiche divergenti da quelli del dettato consumista costituisce un atto di resistenza. L’arte, soprattutto a partire dall’impegno politico degli anni Sessanta, ha spesso trovato forma e ragioni in questa dimensione, sia dotandosi di una finalità sociale sia mantenendosi strettamente in formati simbolici. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, soprattutto negli Stati Uniti, si è addensato un pensiero strutturato sul ruolo di questi spazi che per essere luogo di un cambiamento non possono ridursi a una piccola rivoluzione individuale ma devono costituire “infrastrutture di resistenza”, come scive Jeffery Shantz. Tra i pensatori più lucidi sul tema, David Graeber le chiama “zone di improvvisazione culturale” e vi riconosce uno spazio in cui la visione si sottrae al controllo e quindi diventa generativa. Oggi più che in qualsiasi altro periodo della storia europea l’estetica dell’arte è avvinta a questa tensione sperimentale, tenendo aperte molte sfide tra le quali non secondaria è quella della propria definizione, rispetto alla dimensione del suo accadere, alla forma simbolica, alla funzione sociale, alle connessioni e alle differenze con l’attivismo.
OG: Parli a un certo punto del rischio di un approssimarsi di un disincanto irreversibile sulla vita in comune, come risultato di un mondo impostato, dominato e subito, vissuto in modo sbagliato.
PG: Non mi sento incline a visioni distopiche e millenariste ma devo ammettere che mentre crescono le iniziative comunitarie di autoorganizzazione ispirate da principi di ecoanarchismo, ecofemminismo e mutuo appoggio, parallelamente su più ampia scala avvertiamo una compressione sempre più stringente della dimensione del vivere insieme. Da decenni è in corso nel mondo dominato dallo stile di vita di matrice europea e nordamericana un lavoro di reclusione dei soggetti (che si perfeziona in modo quasi naturale quando le paure collettive diventano stringenti e tangibili). La dimensione politica delle persone si rarefà, si perde la percezione di prossimità, di sodalità sociale: questo vuol dire perdere alcune qualità specifiche del genere umano che hanno tenuto assieme per millenni la vita associata. Abbiamo fatto in modo che la quasi totalità delle scelte che ci riguardano, che prendiamo e che altri prendono per noi, siano fatte in nome dell’economia, della sua crescita, della sua sostenibilità. Questo ha rappresentato la sconfitta del politico a beneficio dell’economico, e una drammatica perdita di unità tra l’umanità e il pianeta. Un tema importante, non smetto di ripeterlo, è recuperare la nostra consustanzialità con l’ambiente. A botte di contrapposizioni teoriche e funzionali tra naturale e culturale, naturale e artificiale, l’ambiente è stato configurato come una totale alterità da governare, sfruttare, disciplinare e dominare. Per sostenere il valore di una ecologia sociale e ambientale servirà una forte motivazione che, correggendo leggermente un principio della rivoluzione cubana, si fondi su stimoli etici oltre che su quelli materiali.
OG: Ho trovato folgorante, davvero una visione per immaginare il futuro, oltre che il presente, i due valori con cui accomuni l’esperienza artistica e quella della pedagogia libertaria. La fiducia nella libertà e il coraggio della speranza.
PG: Io ho fiducia nell’umanità, e dobbiamo imporci di reagire alla crisi con strumenti di comprensione, di condivisione. Ed è necessario immaginari come parte di un consesso in cui la libertà e l’uguaglianza siano entrambe mezzi e obiettivi del vivere insieme. Quello che il pensiero anarchico ha fatto in più rispetto ai grandi filoni politici della storia europea consiste nella coniugazione di questi due termini, a differenza di socialismo e liberalismo, entrambi, come l’anarchismo, nati all’indomani delle rivoluzioni sociali e culturali di fine Settecento che hanno posto il primato, rispettivamente dell’uguaglianza e della libertà. E questa comprensione è stata cucita con la continua attenzione a un altro termine fondativo dei patti sociali: la solidarietà. È una solidarietà laica, spogliata però di qualsiasi connotazione caritatevole e colonialista, è il muto appoggio argomentato da Kropotkin, è una visione dell’altro poggiata sulla convinzione che le società siano organismi plurali e che, per parafrasare la parola poetica di Majakovskij, salvarsi da soli non abbia alcun senso. Il coraggio della speranza che innerva l’arte, invece, è una speranza come virtù e come facoltà immaginativa, e qui vorrei concludere riportando alcune righe dall’introduzione al libro. Il coraggio della speranza “è la possibilità di animare una visione divergente e sottrarsi ai meccanismi del dominio, che sia economico, politico, religioso o scolastico. Una speranza fatta di creatività, capace di vivificare quella resistenza che coincide con l’immaginazione. Una speranza che ha bisogno di coraggio per compiere scelte, per elaborare nuove narrazioni, per assumersi il diritto e la responsabilità della trasformazione del mondo”.
fotogramma tratto da Metropolis , 1927, diretto da Fritz Lang
fotogramma tratto da Pink Floyd The Wall, 1982, diretto da Alan Parker
fotogramma tratto da The Strawberry Statement, 1970, diretto da Stuart Hagmann
cover del libro
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